lunedì 2 maggio 2016

A Londra. Alla bellezza e alla bontà condivisa. A mio fratello.

Sono una nostalgica, un'inguaribile romantica, e pure un po' bugiarda. Dico sempre di non far caso ad anniversari e ricorrenze e invece ci sono alcune date o periodi della mia vita scolpiti così tanto nella memoria che è impossibile per me non pensarci, impossibile non provare il desiderio di ricamarci su qualcosa.

La prima settimana di maggio del 2015 sono stata a Londra per la terza volta, un viaggio che ricordo con gioia e una punta di amarezza perché ha segnato la fine di un capitolo (un master lungo e impegnativo) e ne ha inaugurato un altro (quello sulla mia bellissima esperienza nella redazione del Gambero Rosso). Un viaggio che io e mio fratello - compagno di avventure e di merende - abbiamo desiderato tanto e che abbiamo cercato di organizzare in modo che fosse il più possibile enogastronomicamente didattico e divertente.

Amo Londra, dalla prima volta che l'ho visitata nell'ottobre del 2008. L'ho ritrovata bellissima in primavera, nel 2011, quando ci sono tornata per il secondo round, e ho capito che tra me e quella città c'è feeling quando ho sentito un grande senso di felicità passeggiando svogliata per Queensway con mezzo litro di cappuccino bollente (with cream on the top!) tra le mani, esattamente un anno fa.

Una metropoli meravigliosa che è un giacimento di storia, arte e cultura perché oltre alla miscellanea di strutture architettoniche (dall'imponente abbazia di Westminster in stile romanico al Tower Bridge di fine Ottocento, dalla barocca Cattedrale di San Paolo al futuristico "The Gherkin" che dall'alto dei suoi 180 metri di vetro e acciaio domina la City) è sede di alcuni dei più importanti musei del mondo: il British Musem, che tra le meraviglie archeologiche custodisce la Stele di Rosetta; la National Gallery, nelle cui sale ci si perde tra i dipinti di van Gogh, Van Eyck, Manet, Cézanne, Botticelli, Tiziano e Caravaggio; il Tate Modern, dove è custodito un calco in bronzo di Forme uniche della continuità nello spazio, la scultura del futurista Umberto Boccioni; il Museo di Storia Naturale, in cui è possibile ammirare scheletri di dinosauri e specie botaniche rare o estinte.

Londra è molto di più delle visite ai musei e delle passeggiate per le vie più battute del centro, non è solo Piccadilly Circus e Trafalgar Square. C'è Soho da esplorare la notte, l'atmosfera underground di Brick Lane, l'eleganza degli edifici in stile vittoriano di Notting Hill. Ci sono i mercati, quelli di Portobello Road e di Camden Town in cui ci si perde tra le bancarelle di antiquariato, abbigliamento vintage e vinili da collezione, e quello tutto dedicato alle delizie dello street food di Borough Market, in cui ho trovato forse le migliori scallops - le capesante - assaggiate finora (arrostite su piastre roventi e condite con wild garlic, ginger, bacon croccante e succo di lime), una paella da leccarsi i baffi, fudge in tutti i gusti e dei doughnuts al crème caramel e briciole di honeycomb salato buoni da perdere la testa. C'è davvero di tutto lì, dalle scotch egg ai centrifugati di frutta tropicale, dalle beef e pork pie (pasticci di carne di manzo o maiale) al pane sciocco da accompagnare con crudo di Parma o pepato fresco siciliano.


Per festeggiare non so bene cosa (da qualche tempo a questa parte ho iniziato a credere che nella vita ci sia sempre qualcosa per cui festeggiare), il passo successivo all'acquisto del biglietto low cost con partenza da Ciampino alle 6:30 del mattino, è stato fiondarmi sul sito di un ristorante in cui sognavo di andare da mesi e svelare a OpenTable il CVV della mia carta per bloccare, con gli ultimi soldi rimasti sul conto, gli unici due posti disponibili dalla data del mio arrivo a Londra fino alle otto settimane successive. Era il 2 maggio e io stavo per fare un'esperienza meravigliosa al The Ledbury, il locale più esclusivo di Notting Hill e uno dei più rinomati di tutta la città.

Rassicurante leggere sul sito "non è richiesto nessun dresscode" (anche se non sufficiente a evitare la lite con l'accompagnatore - mio fratello - che se non glielo avessi impedito si sarebbe presentato lì in polo), incantevole l'atmosfera del locale, e un menu compatto e seducente del quale avrei ordinato tutte le portate (peccato che i soldi erano contati!). Ce li ricordiamo ancora gli amuse-bouche (in assoluto le due consistenze di foie gras) portati a tavola su pietre, cortecce e aghi di pino; la crosta fantastica del pane, servito caldo, su cui spalmare un burro di capra da affioramento del cui sapore ancora sento l'eco; il ceviche di ostriche con wasabi, il prosciutto d'oca con carciofi, la spalla di coniglio, il piccione, la olive oil tart, dessert fantastico.


Siamo usciti dal 127 di Ledbury Road alticci e felici; a mezzanotte e venti in punto abbiamo gioito per non aver perso l'ultima corsa della metro, ma il sogno è svanito quando a Tottenham Court Road, scesi dalla Central Line per salire sulla Northern, hanno chiuso la stazione. Così ci siamo trovati a girovagare al freddo, in piena notte, tra Covent Garden e Leicester Square, nel tentativo disperato di trovare un notturno che ci portasse nelle vicinanze di casa. Siamo andati a letto alle 4:00...

Il giorno dopo è stata la volta di una scoperta fantastica, quella dell'afternoon tea. Non che ignorassi del tutto l'abitudine pomeridiana degli inglesi di dedicarsi alla conversazione e al relax in salotto sorseggiando infusi, ma non immaginavo che a Londra ci fossero dei veri e propri luoghi dedicati a questo rito, celebrato con prelibatezze di rara bontà. Grazie a due amici fantastici, il giorno prima di partire ho trascorso un pomeriggio memorabile nella sontuosa sala del Palm Court, la tea lounge del The Langham, uno degli alberghi di lusso di Regent Street. Pare che più di 150 anni fa la tradizione inglese di bere il tè sia nata proprio qui, dove si respira ancora un'atmosfera regale e si vive qualche ora da sogno, come avvolti nell'incantesimo della luce di cristallo che illumina le sale impeccabili, e delle note di un pianoforte a coda che fanno da sottofondo a un'atmosfera unica.


Una sommelier del tè ci ha portato la carta con una proposta di trenta blend, e dopo le ordinazioni è iniziata la sfilata di "finger-meraviglie": dal lemon posset, alla sfilza di sandwich variamente farciti; dai profumatissimi scones caldi su cui spalmare burro da affioramento del Devonshire e confettura di fragole, alla meravigliosa selezione di pasticcini e tortine servite per ciascun commensale su alzatine personalizzate. Il lusso di prendere il tè dai raffinati servizi Wedgwood ha il prezzo base di 49 pound a persona, ma ne vale la pena.


Se avessi avuto tempo (e soldi, fattore cruciale) avrei progettato altre esperienze gastronomiche, tipo provare il Set Lunch Menu del Dinner by Heston Blumenthal e andare a cena al Nopi, il ristorante di Yotam Ottolenghi, lo chef israeliano che insieme al collega e amico palestinese Sami Tamimi ha scritto un bellissimo libro di cucina per la pace, Jerusalem, tra le cui pagine si incontrano due culture apparentemente distanti e troppo in conflitto. Avrei anche provato la cucina di Gennaro Contaldo - star della tv di origini italiane divenuto famoso nel Regno Unito e in Australia grazie al simpatico programma della BBC "Two Greedy Italians", che mi faceva tanto sorridere quando a Melbourne trascorrevo qualche minuto davanti alla tv - oggi impegnato in una delle insegne londinesi firmate Jamie Oliver. Sarei andata alla ricerca della migliore english breakfast e del miglior fish&chips della città, alla scoperta di pub e sushi bar, e avrei provato quante più cucine etniche possibile, ma sarà per il quarto round, molto presto... (meglio avvisarti in anticipo sulle mie prossime mosse, Snipsy!)

venerdì 8 aprile 2016

Catania: la nostalgia di tempi che non tornano e la gioia di sentirsi sempre a casa

Ho vissuto a Catania per cinque anni e, come per altre circostanze della mia vita, quello con la città non è stato un rapporto da subito facile. Stavo lì malvolentieri per frequentare le lezioni all'università, e tutte le domeniche era una sofferenza enorme soffocare la libertà che avevo in paese per andare a rinchiudermi dentro i confini di un posto letto, limitare le uscite serali a un orario in cui non fosse troppo "pericoloso" tornare a casa. Camminavo sempre con il timore di essere pedinata da qualche malfattore (una volta, purtroppo, è successo davvero!) e la mia prima volta in metro è stata un trauma - non sapevo che i treni andassero in direzioni opposte, così ne ho preso uno a caso e anziché a piazza Borgo sono finita al porto, dalla parte opposta di una città che mi sembrava gigantesca!

Ho impiegato due anni prima di cambiare opinione su Catania. Ho dovuto aspettare di diventare un po' più matura per decidere di tagliare il cordone ombelicale che in città mi teneva legata solo alla ristretta cerchia delle amicizie di paese e ho dovuto convincermi di non avere paura a cercare una nuova casa, con delle coinquiline sconosciute. Ho deciso di fidarmi di un istinto ancora acerbo per scegliere nuove compagne d'avventura e non ho sbagliato: i tre anni seguenti sono stati tra i più belli della mia vita. Grazie alle nuove amicizie ho imparato a vivere una città che non era solo il grigio cenere dei palazzi, ma tanti colori, tutti messi assieme.



I cornetti all'Etoile a notte fonda e gli amari prima di tornare a casa; le passeggiate in via Etnea e l'arancino alla catanese da Spinella, quello con i tocchetti di melanzane fritte, riccioli di ricotta salata e basilico, che tanto adoro; il gelato ricotta e cannella da St. Moritz e l'Etna da Scardaci; il seltz limone e sale del chiosco in piazza Umberto; le granite in piazza Europa e gli iris al cioccolato; i kebab alle quattro del mattino da Mille e una Notte dopo le lunghe serate in piazza Teatro; le cene in via Plebiscito e a Castello Ursino a base di cipollate, polpette di cavallo e fiumi di vino della casa - di quale casa non si sa - che spesso era aceto, ma che ne sapevo! L'aperitivo da Bonù e i cocktail al Carlito's; le feste a casa di mio fratello che finivano sempre troppo tardi...

Adesso, tutte le volte che torno a Catania, provo il desiderio forte di restarci perché sento che quella città mi appartiene e che io, un po', appartengo a lei. La rispetto profondamente e ho imparato ad amarla così com'è, senza volerla cambiare, senza lamentarmi per tutti i suoi difetti. Passeggiare a San Giovanni li Cuti, così come tra via Pacini e piazza Carlo Alberto, mi procura un senso inspiegabile di felicità. E alle mie espressioni di paura e di sdegno alle "vuciate" dei venditori in Piscarìa o a' Fera 'o Luni si sono sostituiti sorrisi pregni di nostalgia.



Se ne stanno sempre tutti lì i putiàri, un po' invecchiati, ma al loro posto con le solite bancarelle. C'è il tizio con gli occhiali "ca avi 'a frutta bbona" - quello che un paio di volte, anni fa, vedendomi inesperta mi ha tirato delle sole allucinanti; ci sono i gemelli con i "ciurietti" (i cavolfiori), dai quali mi fermavo un giorno sì e l'altro pure. Catania se ne sta lì, ai piedi del Gigante, lambita da acque cobalto, con i palazzi barocchi, le finestre rococò e un profumo forte e pungente che per le strade di altre città non si trova. Vive allegra sotto un sole bellissimo e sa aspettare a braccia aperte chi torna, sempre pronta ad accogliere chiunque, come una mamma bella da morire ma un po' disgraziata, che dà quello che può e riceve in cambio poco.

venerdì 25 marzo 2016

Cu n'appi n'appi re cassateddi i Pasqua!

Letteralmente: "chi le ha avute le ha avute le cassatelle di Pasqua".
È una frase a cui mamma e mia nonna ricorrono spesso quando mi vogliono fare capire che qualcosa ormai è andata, passata, finita, e che quindi devo rassegnarmi all'idea che non posso più averne o che non ci posso fare nulla.

Mi sono sempre chiesta quale circostanza avesse generato questo strano detto. Un paio di giorni fa, mentre navigavo alla ricerca di suggerimenti che mi consentissero di migliorare l'impasto delle cassatelle tipiche della Pasqua nella mia Sicilia dei Monti Iblei, la luce.

Pare che questi dolcetti, preparati dalle monache il giorno del Venerdì santo, fossero stati così tanto graditi e richiesti dalla popolazione che per far fronte alle ordinazioni le religiose avessero dovuto ritardare le funzioni liturgiche fino a scatenare il disappunto dell'arcivescovo. Questi, per riportare ordine in convento, intimò a un messo di cacciare tutti dall'androne del monastero al grido "cu n'appi n'appi re cassateddi i Pasqua".
Svelato l'arcano, preparate le cassatelle.


Non so di preciso quale fosse la ricetta delle monache e non so neanche quale sia quella originale della mia famiglia visto che le mie nonne usano la bilancia solo a Natale per preparare il torrone, perché tutto il resto si fa "a occhio"! Io, che a "l'occhio" sono proprio contraria, ho deciso di sperimentare un paio di impasti e con l'ultimo sono riuscita a raggiungere un risultato che mi è piaciuto, soprattutto stabile e facilmente replicabile.

Le cassatelle (o cassatine) sono dolci poveri, ereditati dalla tradizione contadina e diffusi soprattutto nelle province di Ragusa e Siracusa con qualche variazione, ad esempio la presenza o meno di farina 00 nell'impasto, di uova o gocce di cioccolato nella farcia. In tutti i casi si tratta di piccoli cestini a base di semola, strutto e uova, farciti con ricotta zuccherata, una spolverata di cannella e cotti in forno. All'estrema semplicità d'esecuzione corrisponde una bontà che non dovrebbe essere spiegata a parole, ma a morsi...

Cassateddi i Pasqua

Per l'impasto (circa 30 cassatine):

500 g di semola
200 g di farina 00
150 g di strutto
60 g di zucchero semolato
40 g di marsala secco
2 uova intere
6 g di lievito in polvere
un pizzico di bicarbonato
acqua fredda q.b.

Per il ripieno:

1,5 kg di ricotta vaccina (meglio se del giorno prima)
300 g di zucchero semolato

Cannella in polvere e zucchero a velo per decorare.

Disporre le polveri a fontana e aggiungere zucchero, uova, strutto, vino, lievito e bicarbonato. Lavorare velocemente con le mani fino a compattare quasi del tutto l'impasto. A questo punto versare l'acqua fredda, poca per volta, e aggiungerne altra solo dopo che l'impasto ha assorbito bene tutto il liquido, fino a ottenere un panetto compatto ed elastico (si dovrà lavorare per almeno dieci minuti e verranno assorbiti complessivamente dai 60 agli 80 grammi d'acqua, dipenderà dall'umidità della farina). Coprire con pellicola e lasciare che l'impasto si rilassi per facilitare la stesura.

Nel frattempo preriscaldare il forno impostando la temperatura a 220°C e lavorare ricotta e zucchero con le fruste elettriche finché la crema non sarà priva di grumi e ben spumosa.

Riprendere l'impasto e stenderlo con l'aiuto di una nonna papera o del mattarello (in quest'ultimo caso cercando di limitare il più possibile l'uso della farina) fino a raggiungere uno spessore di un paio di millimetri. Ritagliare dei dischi di 12 cm di diametro con un coppapasta o con il bordo di una tazza e realizzare i cestini pizzicando il bordo dei dischi oppure fissando delle piccole piegoline premute tra pollice e indice.


Farcire le cassatine di crema di ricotta con l'aiuto di un sac à poche o servendosi di due cucchiai per far scivolare la farcia senza sporcare i bordi. Cuocere in forno per circa 10 minuti, o almeno fino a quando la ricotta non si sarà gonfiata e la pasta non avrà assunto un bel colore dorato.

Sfornare le cassatine, spolverizzare di cannella e zucchero a velo e lasciare raffreddare in un luogo fresco e asciutto. Si conservano in un contenitore chiuso ermeticamente per due o tre giorni.

martedì 22 marzo 2016

The day after. Io, oggi, la paura ce l'ho.

Mentre guardo su Facebook i commenti di apprezzamento di quanti hanno letto il post sul mio viaggio in Belgio arriva la notizia di una serie di attentati. Diversi morti e molti feriti. Sembra uno scherzo del destino. Io che parlo del profumo per le strade di Bruxelles e della bellezza della Grand Place che insonorizza il centro dai rumori delle rue dei quartieri popolari e il tg che mostra il delirio di una città violentata, vittima del terrorismo pazzoide di una generazione di bestie squilibrate.

In questi casi ci si ferma a riflettere per dire la cosa giusta, ma la verità è che in questi casi la cosa giusta non esiste. Meno di quarantotto ore fa all'aeroporto di Bruxelles Zavantem c'ero io insieme ad altre quattro amiche. In quello stesso aeroporto stamattina sono morte una dozzina di persone. Qualcuno stava per tornare a casa per riabbracciare i propri cari e invece non è successo.

La verità è che in questi casi si rimane bloccati per ore davanti alla tv con fare catatonico: cervello spento e sguardo perso nel vuoto. Le sirene delle auto della polizia che passano da viale Marconi ti fanno sussultare il petto, sono l'unica cosa che fa eco dentro un corpo vuoto e inerme. Leggi sui social le frasi dei temerari che scrivono "IO NON HO PAURA" e l'unica cosa che vorresti fare è dire loro "ma che dici? ma cosa diavolo stai dicendo?".

La paura non ce l'hai finché le cose non ti riguardano, finché pensi che non ti possano toccare. Ma quando ti rendi conto che per un regalo del cielo di poche ore quei vestiti a brandelli non sono i tuoi e gli sguardi terrorizzati che incroci non sono quelli delle tue amiche, come fai a non aver paura? Come si fa a non avere paura di morire? Come si fa a non avere paura di perdere un figlio, un padre, una madre, un fratello, un amico? Come si fa a non avere paura di essere vittima di qualcosa che è fuori da ogni controllo?

Io oggi la paura ce l'ho. Ma non ho paura perché il male sta alla stazione o in aeroporto. Ho paura perché il male sta ovunque e ci colpisce quando non ce lo aspettiamo. E ho paura perché anche se ce lo aspettiamo non abbiamo strumenti per proteggerci. Ho paura perché il male potrebbe vivere in tutte le strade di Roma, di Bruxelles, di Parigi, di Amsterdam, di Berlino, di Madrid, di Londra. Il male potrebbe proliferare anche nell'appartamento sopra il mio e io ho paura perché non ne so nulla.

Oggi tirerò la zip della quindicesima valigia. Insieme ai vestiti ci chiuderò dentro la paura e salirò sul treno per raggiungere l'aeroporto. Sobbalzerò a ogni fischio di sirena e a ogni rumore molesto, e per la prima volta mi sentirò al sicuro solo quando mi sarò staccata dal suolo. Non si può non avere paura e non si può ignorarla, ma si può cercare di sconfiggerla.

lunedì 21 marzo 2016

Appunti di viaggio: Bruges e Bruxelles. Di paesaggi incantevoli, architettura gotica, birra e...cioccolato!

Puntuale l'atterraggio a Bruxelles Zavantem, pochi minuti per capire con quale mezzo raggiungere la città (il più comodo e il più economico - dopo le 20:00 il biglietto costa un euro - è il servizio offerto da De Lijn, l'azienda di trasporto pubblico che collega l'aeroporto con la stazione Gare du Nord) e siamo nella capitale del Belgio, blindata dalle forze dell'ordine che sfrecciano con le loro auto a sirene spiegate su e giù per le rue.

Lo scenario che abbiamo sotto gli occhi è il seguente: negozi e ristoranti con le saracinesche abbassate, prostitute per le strade e la geolocalizzazione dell'iPhone che segnala una distanza di circa due chilometri da Molenbeek, la municipalità in cui poche ore prima del nostro arrivo è stato arrestato il terrorista islamico responsabile degli attentati di Parigi del 13 novembre. L'impatto con il quartiere popolare che ci ospita ci fa un po' rimpiangere non essere rimaste a casa. Troppi poliziotti in fermento e poca gente in giro per le strade di venerdì sera. Rivediamo il programma  che ci avrebbe guidato alla scoperta di Bruxelles e decidiamo, per il giorno seguente, di spostarci dal caos per andare a Bruges.

Sabato mattina, colazione al volo in un bar della stazione (le boulangerie e i bar non aprono prima delle 10:00!) e una città che vale i sessantacinque minuti di viaggio in treno. Il centro storico del suggestivo capoluogo delle Fiandre Occidentali è patrimonio dell'umanità dal 2000. Il motivo non è difficile da capire, Bruges si descrive con una sola parola: incantevole! Impronta architettonica di epoca medievale, cattedrali in stile gotico, una trama di viuzze strette tappezzate di sanpietrini, case basse e ponti  di pietra che collegano deliziosi angoli della città regalano a questo centro un'atmosfera fiabesca.

Il cuore storico, delimitato da un canale che ne circoscrive i confini, è interamente percorribile a piedi. La prima tappa, a poche centinaia di metri dalla stazione è stata il Begijnhof, un piccolo agglomerato di edifici che fa parte dei beghinaggi fiamminghi, il centro in cui risiedevano le beghine, confraternite laiche fondate intorno al XIII secolo nei Paesi Bassi da donne cattoliche.


Poco distanti la bellissima cattedrale di San Salvatore in stile gotico francese, con l'imponente torre, e la chiesa di Nostra Signora, un'affascinante esempio di gotico brabantino all'interno delle cui mura è custodita la marmorea Madonna col bambino di Michelangelo. Il cuore pulsante di Bruges è il Markt, la piazza del mercato su cui si affacciano, oltre al Belfort (la torre civica alta più di 80 metri simbolo della città) alcune tra le più prestigiose boutique di cioccolato che contribuiscono a rendere deliziosa l'aria che si respira in questa città.


Le strade del centro sono un susseguirsi di bottegucce che propongono oggetti d'artigianato locale, mercatini d'antiquariato, bistrot, brasserie e confiserie. Tra i prodotti tipici del Belgio, oltre alla birra e al cioccolato, gli speculoos, dei biscottini alla cannella tradizionalmente di forma rettangolare con stampe in rilievo in superficie, e le gaufres (o waffle), cialde dolci lievitate cotte tra due piastre di ghisa calde che, a contatto con l'impasto a base di farina, zucchero, uova, latte, burro e vaniglia, sprigionano profumi irresistibili.


Una delle sorprese che non ci si aspetta da Bruges è il Kruisvest, il Parco dei Mulini che si snoda lungo i bastioni orientali della città in un percorso verde di cui noi, purtroppo, non abbiamo potuto godere perché era ora di tornare alla base ed esplorare almeno un po' la Capitale della birra e del cioccolato.

Arriviamo a Bruxelles al tramonto e la bellezza della Grand Place illuminata, con le decorazioni dorate della Maison du Roi e lo spettacolo di volte a crociera e altorilievi del Municipio e della Tour Inimitable, ci fa dimenticare il fischio assordante delle sirene. Il tempo a disposizione è poco ma il momento tanto atteso è arrivato: possiamo partire come trottole impazzite alla volta del tour del cioccolato.

Purtroppo Bruxelles è una città troppo turistica per lasciare spazio alle botteghe dei piccoli artigiani che si dedicano alla selezione e alla lavorazione a regola d'arte del "cibo degli dei". Le vie principali sono un susseguirsi di insegne di colossi commerciali che vantano una storia più o meno recente (su tutti Leonidas, Mary e Neuhaus - a quest'ultimo si deve l'invenzione della pralina) e propongono cioccolato in ogni forma, colore e consistenza (il clima pre-pasquale, ovviamente, accentua la creatività e la fantasia degli addobbi delle vetrine!). Per evitare di prosciugare il portafogli e di far schizzare in aria il tasso glicemico nel tempo di una breve passeggiata dedico assaggi e acquisti a due soli store, quelli che in città non possono essere considerati semplici negozi, ma vere e proprie boutique di haute chocolaterie: Godiva e Pierre Marcolini.

La maison belga Godiva, oltre che per le raffinate confezioni di praline e napolitains (carré assortiti - bianco, al latte e fondente 50%, 72% e 85% di cacao), attira i turisti con delle scenografiche fontane di cioccolato in cui vengono tuffate le fragole, vendute poi in "cartocci" da quattro o cinque pezzi (alla modica cifra di 8,50 euro), ottimo metodo per far venir voglia a chiunque di mangiare la frutta anche in vacanza (o di farla passare a chi pesa il portafogli)!


Pierre Marcolini è un maitre chocolatier che seleziona cru di cacao in giro per le aree del mondo più vocate e trasforma le fave in napolitains monorigine (Venezuela, Perù, Messico, Brasile, Giava, Madagascar, Trinidad ed Equador), praline e tartufini di rara eleganza. Le confezioni sono bellissime (e carissime!) e nella boutique di Galeries Royales Saint-Hubert, a metà strada da Gare de Bruxelles Central (la stazione principale) e la Grand Place si possono acquistare raffinati éclair glassati in tanti gusti, marveilleux belle come opere d'arte, cake e financier (anche in formato mignon) da accompagnare a cioccolate fumanti.


La notte è il momento da dedicare alle degustazioni di un altro orgoglio belga: la birra. Per ottimizzare i tempi e gli assaggi decidiamo di trascorrere la serata in un famoso locale del centro, il Delirium Café: una carta - un vero e proprio elenco telefonico - con oltre 2400 birre e un'atmosfera più che goliardica. Il bar si articola in un intero vicolo di Ilot Sacré, uno dei quartieri più suggestivi della città, il cuore antico di Bruxelles, animato da botteghe del merletto e ristorantini che propongono piatti tipici della gastronomia belga: waterzooi (stufato a base di pesce o pollo con verdure, panna e spezie) e moules-frites (cozze e patatine fritte). La birra, dicevamo...Leffe, Duvel e La Chouffe le ale (cioè le birre ad alta fermentazione) più conosciute che andavano per la maggiore tra i tavoli del locale.

Poco tempo e troppa voglia di scoprire tanto altro sul Belgio, sulla sua cultura "a metà strada" tra la Francia e l'Olanda, le tradizioni gastronomiche, le architetture mozzafiato e i paesaggi fiabeschi. Torniamo a casa con la promessa di trascorrere qualche giorno in più in questa terra affascinante, fuori dalla metropoli, tra le Fiandre e la Vallonia, per andare alla scoperta di cioccolatieri (quelli veri!) e abbazie.

venerdì 18 marzo 2016

Bruxelles' calling...

E chi lo avrebbe mai detto che avrei pubblicato il mio secondo post dall'aeroporto di Fiumicino? Che a pensarci bene forse non è neanche così strano visto che è un luogo che negli ultimi mesi frequento molto spesso. Già, perché siamo a metà marzo e io oggi ho chiuso la tredicesima valigia dell'anno. Colpa del mio essere irrequieta (contrariamente a quanto ci si possa aspettare dal mio nome) e del mio desiderio di scoprire tutto ciò che posso quando posso.

Sono in partenza per Bruxelles, la capitale del cioccolato - prodotto che amo, in tutte le sue forme, tipologie e varianti - e della birra - sulla quale un po' di cultura in più non mi dispiacerebbe! Al mio ritorno dal Belgio spero di riuscire a scrivere qualcosa sulle cose che avrò visto e i piatti tipici che avrò assaggiato. Annotare qualche consiglio mi tornerà utile in futuro. Certo, un weekend non è abbastanza per scoprire a fondo le tradizioni gastronomiche di una città con una cultura culinaria - tra l'altro - così diversa dalla nostra, ma è comunque un modo per farsi un'idea, un'opinione, e alimentare la voglia di tornare per più giorni e rivedere ciò che non si è avuto il tempo di assaporare con la giusta calma.

Sono curiosa e impaziente di scoprire questo pezzetto d'Europa; a dire il vero anche un po' timorosa considerato il clima di allerta che ha caratterizzato la città negli ultimi giorni. Ma ho fatto mio un fatalismo che non mi fa desistere dal salire sull'aereo e raggiungere la città. Ovviamente mi auguro che vada tutto bene e che tornerò da questo viaggio (sana e salva ed) entusiasta, con ancora più sete di conoscenza!

S

martedì 15 marzo 2016

Sì, l'ho fatto. Anch'io ho aperto un blog!


Tutto molto semplice e immediato.
Una volta deciso che sarebbe successo ho acceso il pc, sono andata su Google e ho digitato "come aprire un blog" sul motore di ricerca. Ho seguito passo passo le istruzioni, ho scelto un titolo (che a dirla tutta avevo in testa già da tempo), uno sfondo (secondo me) carino e ho premuto invio.

Quindi eccoci.
Lui è "ciauru" - l'accento si pronuncia sulla a -, io sono Serena e questo è il nostro primo post.
Con le presentazioni il rischio di annoiare chi legge è sempre alto, quindi mi limiterò a dire che siamo entrambi siciliani e un po' timidi, amanti di profumi e colori, tradizioni, viaggi e sapori.

Non so con che cadenza pubblicherò dei contenuti e non so se risulteranno interessanti agli occhi di chi li leggerà (sempre se ci sarà qualcuno che li leggerà), ma poco importa.
Ciauru nasce perché scrivere mi fa stare bene e perché, condividendo pensieri, racconti, ricette, foto ed esperienze, in fondo spero di riuscire a suscitare sensazioni positive anche in chi decide di curiosare tra queste pagine.

S